- 27 Maggio 2015
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Trasformazione contratti, assunzioni a tutele crescenti, licenziamento, superamento periodo di comporto: focus sul nuovo tempo indeterminato, con trappole e soluzioni percorribili.
Fatta la legge trovato l’inganno: applicando questo motto da Azzeccagarbugli al decreto attuativo del Jobs Act sul nuovo contratto a tempo indeterminato, che prevede l’assunzione a tutele crescenti, emergono alcuni punti critici, ai quali gli imprenditori nell’applicare la norma dovrebbero stare attenti. Vediamone alcuni, con l’aiuto dell’analisi di Francesco Longobardi, presidente nazionale ANCL-SU (associazione nazionale consulenti del lavoro sindacato unitario) e di Francesco Stolfa, avvocato Componente Ufficio Legale ANCL.
Trasformazione contratti
Il decreto attuativo sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (Dlgs 23/2015) prevede l’applicazione a tutti i casi di conversione «di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato» (comma 2, articolo 1). Ci sono interpretazioni in base alle quali questo potrebbe rappresentare un eccesso di delega rispetto a quanto previsto dalla legge 183/2014, la quale alcomma 7 dell’articolo 1, lettera c, prevede che il nuovo contratto a tutele crescenti si applichi alle “nuove assunzioni”.
In parole semplici, il dubbio riguarda la differenza che c’è fra nuove assunzioni e trasformazione dei contratti. Il decreto applicativo della delega considera, infatti, nuove assunzioni anche le trasformazioni dei contratti a tempo determinato e di apprendistato, allargando di fatto il raggio d’azione previsto dalla legge delega che parlava, più in generale, di nuove assunzioni.
Sembra un tecnicismo, in realtà la questione è fondamentale perché alle nuove assunzioni a tutele crescenti si applicano le nuove regole sul licenziamento, che limitano parecchio le possibilità di reintegro in caso di licenziamento ingiustificato, mentre chi era già assunto prima dell’entrata in vigore del decreto applicativo del Jobs Act (7 marzo 2015), mantiene tutte le protezione del “vecchio” articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Secondo Longobardi e Stolfa:
«una simile interpretazione della legge delega appare piuttosto discutibile in quanto il riferimento operato dal legislatore alle “nuove assunzioni” pare riferirsi chiaramente ai contratti a tempo indeterminato e non certo alle varie forme di rapporti precari che in essi potrebbero convertirsi». A ulteriore dimostrazione di questa interpretazione, il fatto che «scopo evidente della riforma pare proprio quello di incentivare la sostituzione dei contratti precari con quelli stabili e non si vede perché tale incentivo non dovrebbe operare anche nei confronti dei contratti precari già costituiti».
Però, del tutto ipoteticamente, nel caso in cui la norma venisse impugnata davanti alla Corte Costituzionale, e l’obiezione venisse accolta, si potrebbe creare un situazione per cui, anche a distanza di anni, si tornerebbe «all’applicazione della disciplina generale sui licenziamenti a quei contratti che si era creduto di stipulare a tutele crescenti». Lo ripetiamo: si tratta di uno scenario del tutto ipotetico. Per evitare qualsiasi inconveniente, secondo Longobardi e Stolfa ritengono consigliabile, per le aziende, far cessare il precedente contratto a termine o di apprendistato e successivamente effettuare l’assunzione a tutele crescenti.
Licenziamenti disciplinari
Il contratto tutele crescenti, come è noto, prevede l’indennizzo economico al posto del reintegro anche in caso di licenziamento disciplinare (con una serie di paletti), mentre la precedente Riforma Fornero limitava questa possibilità ai licenziamenti per motivi economici. La tutela reale (il reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato), resta solo in caso di insussitenza del fatto contestato. Non è invece prevista l’ipotesi in cui il contratto collettivo nazionale di lavoro, ad esempio, prevede una sanzione meno grave del licenziamento. Facciamo un esempio, perché la situazione è complessa. Un lavoratore viene licenziato per motivi disciplinari perché arriva in ritardo di mezz’ora al lavoro. Si tratta, sottolineano Longobardi e Stolfa, di un fatto che «costituisce certamente un inadempimento alle obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro ma rispetto al quale la sanzione del licenziamento non potrebbe certo considerarsi proporzionata». In genere, i contratti di lavoro in questi casi prevedono specifiche sanzioni, ma non il licenziamento. L’articolo 18 prevede in un caso del genere il reintegro nel posto di lavoro. La nuova legge, invece, stabilisce che il giudice chiamato a decidere sul licenziamento impugnato non possa valutare la proporzionalità della sanzione rispetto all’inadempimento, ma semplicemente verificare se il fatto sia o meno avvenuto.
«Si potrebbe quindi pensare che la riforma escluda l’applicabilità della tutela reale anche in ipotesi di inadempimento minimale, con conseguente applicazione della sola tutela obbligatoria», quindi il risarcimento economico. Si tratta di un tipo di lettura «apparentemente del tutto conforme al testo legislativo» in base alla quale qualche imprenditore potrebbe «utilizzare con leggerezza il licenziamento disciplinare». Longobardi e Stolfa sottolineano che «una simile lettura della norma difficilmente potrebbe passare il vaglio della Corte Costituzionale o della Corte di Giustizia Europea».
Più ragionevole pensare che il riferimento alla contrattazione collettiva sia stato eliminato perché considerato inutile, considerando che esiste un’altra legge (articolo 30, comma 3, legge 183/2010), in base alla quale «nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione». Risultato: secondo questa interpretazione il giudice può continuare a tenere conto di quanto previsto dai contratti di lavoro, continuando ad applicare la tutela reale, ovvero il reintegro, «non solo quando manchi la prova del fatto materiale ma anche quando quel fatto sia punito con sanzioni minori nell’ambito delle norme disciplinari».
Superamento periodo di comporto
Nella Riforma del Lavoro non c’è nessun riferimento al licenziamento per superamento del periodo di comporto (nel quale il lavoratore assente per malattia o infortunio non è licenziabile). Per gli assunti con il vecchio contratto a tempo indeterminato, in questo caso vale l’articolo 18 che prevede reintegro e risarcimento fino a 12 mensilità. Per l’assunzione a tutele crescenti, invece, la mancanza di riferimento nel testo di legge potrebbe portare a un’incertezza, ad esempio si potrebbe pensare di far valere il semplice risarcimento previsto per i licenziamenti economici. «In realtà – scrivono Longobardi e Stolfa – nei primi interventi della dottrina l’orientamento prevalente appare esattamente opposto e, quindi, ancor più severo poiché si tende ad applicare la sanzione della nullità per contrasto con l’articolo 2110 del codice civile». Nullità, in base all’articolo 1428 del codice civile, in questo caso significa totale inefficacia del licenziamento e «diritto del lavoratore licenziato al pagamento di tutte le retribuzioni maturate fino al ripristino del rapporto, con i relativi contributi, maggiorati di sanzioni per evasione». Conclusione: il licenziamento per superamento del periodo di comporto va utilizzato quindi con estrema prudenza.
Fonte: PMI